Italia al primo posto in Europa per numero dei laureati in Farmacia. Sono 70.300 gli italiani che hanno scelto di ottenere una laurea in questo settore, una quantità esorbitante se si pensa che il secondo Paese in classifica per numero di professionisti del farmaco è la Francia con 55.454 laureati. L’Italia è anche il secondo Paese in Europa per numero di dipendenti per farmacia, ma è solo al quinto posto per numero di farmacie. Questi i dati rilevanti del report annuale del Pharmaceutical group of the european union (Pgeu), resi pubblici negli scorsi giorni che ben si sposano con i dati occupazionali presentati a FarmacistaPiù dove gli esperti intervenuti hanno segnalato che anche nell’ipotesi irreale di chiudere tutte le facoltà di farmacia bisognerebbe aspettare il 2040 per vedere tutti i professionisti lavorare regolarmente. Per spiegare la crisi occupazionale e l’eccessivo numero di iscritti rispetto al fabbisogno reale, secondo Ettore Novellino, Presidente della Conferenza Nazionale dei Direttori di Dipartimento di Farmacia, bisogna guardare come è cambiato il mercato del farmaco.
«Fino agli anni 2000» spiega a Farmacista33 «il mondo del farmaco cresceva sia in fatturato sia in volumi e le farmacie erano capaci di assorbire un maggior numero di laureati perché il ritorno economico, che era, e lo è ancora oggi, basato su una percentuale del prezzo del farmaco, riusciva a coprire queste spese. Inoltre, un grosso numero di laureati trovava occupazione nell’informazione medico-scientifica. Dunque, il trend in crescita dei fatturati delle farmacie e il trend in crescita del numero di informatori medico-scientifici si traducevano in una forse richiesta di laureati in un mercato che tirava». Secondo l’esperto all’epoca nessuno aveva riflettuto seriamente su fatto che dal 2000 in poi, con un picco dal 2005 al 2010, sarebbero scaduti i brevetti di quasi tutti quanti i farmaci: «Ciò ha comportato un abbassamento del costo dei farmaci» precisa «Finché il farmaco ha il brevetto un 20% del costo del farmaco al pubblico viene riservato a ristorare l’informazione medico-scientifica, di conseguenza, con la scadenza dei brevetti, è stata prima di tutto erosa quella che era la quota dell’informazione medico-scientifica, con conseguente aumento del numero dei disoccupati. Le aziende si sono trovate, poi, a dover calare il prezzo dei farmaci perché anche il ristoro della voce ricerca e sviluppo si era esaurito. La riduzione del prezzo dei farmaci si traduceva anche nella riduzione dei fatturati delle farmacie per ciò che riguardava questi farmaci. Non si era potuto ridurre, tuttavia, il personale perché l’acceso alle farmacie era sempre numericamente uguale se non in crescita. Di fronte a un’offerta che si andava restringendo, tuttavia, l’iscrizione alle facoltà di Farmacia aumentava perché si pensava che laurearsi in farmacia significasse entrare in un mercato che tirava e quindi trovare lavoro. Quindi c’era un trend di iscrizioni che saliva e un trend occupazionale che scendeva. Se ci fosse stato qualcuno previdente si sarebbe capito che era arrivato il momento razionalizzare gli ingressi alla facoltà, o razionalizzare l’accesso alla professione come avviene per economisti, avvocati e così via, dove solo un 20% dei laureati supera l’esame di Stato. Quest’operazione non è stata fatta e quindi questo è il risultato».
Come intervenire dunque per arginare il fenomeno della disoccupazione in questo settore? «Sicuramente bisognerebbe istituire l’accesso alle facoltà di farmacia a numero chiuso, ma ridurre il numero degli iscritti non significa risolvere il problema in questo momento. Quindi bisogna allargare il mercato. Bisognerebbe allargare il campo creando degli specialisti che siano farmacisti ma che siano anche esperti di nutrizione, o tossicologia ambientale. Il farmacista deve diventare il consulente del benessere e del bellessere oltre che il garante per ciò che riguarda la cura delle patologie. Solo pensando allo specialista del farmaco come a un prestatore di servizi del Ssn si può creare uno spazio professionale a cui corrisponde uno spazio economico in più e quindi più lavoro».